Mercoledì notte a Catania non ho chiuso occhio.
Sono venuta qui per rimettere insieme i pezzi dopo settimane di lavoro frenetico. Pensavo di trovare relax… Invece, ho scoperto che questa città ha un concetto molto elastico di “riposo”.
La città sotto di me non dorme mai: motorini che sbucano dalle strade come mosche impazzite, clacson sparati a raffica, voci ubriache che si rincorrono fino all’alba. Ogni volta che il traffico sembra placarsi, ecco un colpo secco di clacson a ricordarmi che il silenzio qui è una leggenda metropolitana. Poi c’è l’odore di erba che risale dal corridoio del palazzo, denso e appiccicoso. Non un accenno lontano: un muro dolciastro che ti entra nei polmoni. Nel cuore della notte non sapevo più se stessi a Catania o nella foresta amazzonica. Il caldo che colava addosso, i clacson diventavano tamburi tribali, i fari delle macchine disegnavano scie fluorescenti sulle pareti. Un trip da ayahuasca improvvisato, senza sciamano e senza biglietto d’ingresso. La me ventenne ci avrebbe ballato dentro felice, “esperienza gratis”. La me trentaquattrenne ha solo spalancato la finestra, decisa a far uscire la giungla e a recuperare un po’ di ossigeno. Perché la notte, si sa, la mente va sempre a spasso col culo.
Così, sudata e insonne, ho iniziato a pensare ad Arezzo. Mi manca come un amore che non ti lascia scelta: lei è mia, io non sono sua. Mi manca il suo silenzio che non è mai silenzio, ma un sottofondo familiare: i colpi di mortaio della Giostra che ti fanno sobbalzare dal letto, l’eco dei cori dello stadio che ti arriva dritto in casa, e l’odore dei maccheroni al sugo d’ocio che si spande nelle strade la domenica a pranzo.
Arezzo è l’unico posto dove mi sento vera. Anche quando fa i suoi scherzi peggiori. Tipo quella volta sul cavalcavia dell’Esselunga ho preso in pieno un sacco della spazzatura.
Era inverno, avevo l’aria calda sparata a mille e la plastica si è incollata al radiatore. Nel viale a quattro corsie la mia piccola macchina rossa sembrava sul punto di esplodere. Io che guidavo in panico, fumo ovunque, e la gente che mi guardava come se stessi facendo uno show a Mirabilandia: la mia macchinina trasformata in una Hot Wheels tra fuoco e fiamme.
Dal meccanico ci sono arrivata urlando e bestemmiando, con quella busta nera che pendeva come fosse un accessorio di serie. L’hanno staccata a forza, ma da allora ho passato un inverno intero con il finestrino abbassato, perché il tanfo di plastica fusa non se ne andava più. A vent’anni Arezzo mi stava stretta come un paio di jeans lavati male: ogni scusa era buona per scappare, convinta che fuori ci fosse sempre qualcosa di più grande. Oggi invece è la mia sitcom personale: episodi brevi, sempre gli stessi personaggi, ma con colpi di scena che non ti aspetti. Tipo a Ferragosto resti a lavorare in una città deserta, ma a te ti rubano la bici e il giorno dopo trovi cinquanta euro per terra: una puntata tragicomica che almeno ti ripaga una ruota nuova. E per la serie “la noia non è mai di casa”, dal balcone del mio appartamento catanese, sto assistendo a un palinsesto degno di Mediaset. Faccio zapping: nella chiesa davanti c’è un matrimonio, ma gli invitati non riescono a entrare perché una macchina è parcheggiata davanti all’ingresso. È dovuta arrivare la polizia. Poco più in là, in una viuzza un appartamento sta prendendo fuoco. Le signore ai balconi fanno da telecronaca, in strada una donna urla “aiutatela!”, ma dei vigili ancora nessuna traccia. Forse sono impegnati a liberare l’ingresso della chiesa. Sotto, intanto, il rumore costante dei clacson, un ronzio continuo come una zanzara dentro l’orecchio.
Se fossi Carrie Bradshaw scriverei davanti alla finestra del mio grande amore. Se fossi un romanziere serio, ci vedrei una metafora sulla vita. Io invece mi vivo tutto questo – e, forse complice l’odore di erba che aleggia nel palazzo, penso alla mia Arezzo. Alle notti in cui i lampioni arancioni non illuminano, ma ombreggiano. Dove anche una strada vuota diventa inquietante e sembra di camminare dentro un film di Dario Argento… Anche se l’unica arma che stringo in mano è il sacchetto della spesa.
Alla fine, Arezzo è la mia versione unplugged. Niente effetti speciali, niente sovrastrutture: solo io, la città, e quel silenzio che sa essere più rumoroso di mille clacson. È la mia playlist senza cuffie: parte quando vuole lei, salta le tracce a caso, ma è sempre la colonna sonora che mi rimette in ordine.
di VERONICA VALDAMBRINI
Stylist, Graphic Designer e Fashion Writer. Fin da quando ne ho ricordo, sono sempre stata attratta da situazioni, stili e differenti tipi di bellezza. Continuamente alla ricerca del nuovo ed alla riscoperta del vecchio, si affiancano a musica Jazz, Portrait Fotografici e cultura giapponese, piaceri e fonti di ispirazione per il mio lavoro e stile di vita.


















