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Diego a.k.a. Sanguedalnaso
Diego Nicchi, a.k.a. Sanguedalnaso, ci racconta come alla passione innata per la musica ha unito un inedito e sincero interesse per la fotografia

A volte il modo migliore per raccontarsi è avere il coraggio di lasciare la strada già tracciata ed intraprendere nuovi percorsi. Ne abbiamo parlato con Diego Nicchi, a.k.a. Sanguedalnaso, che alla passione innata per la musica ha unito un inedito e sincero interesse per la fotografia (ma senza mai abbandonare il palcoscenico!).
In città sei conosciuto per la tua attività di musicista e di organizzatore di eventi, quindi la prima cosa che mi viene spontanea chiederti è: come e perché ti sei avvicinato al mondo della fotografia?
«Sebbene mi sia diplomato al Liceo Artistico, e quindi il mondo delle arti visive mi sia sempre appartenuto, la musica si è impadronita di me molto presto e per lungo tempo è stata il principale mezzo che ho usato per esprimermi. Tuttavia, dopo quasi venti anni passati sui palchi, l’anno scorso ho sofferto un momento di profonda crisi personale, che mi ha spinto a ricercare dei modi alternativi per raccontarmi. Un giorno la mia cara amica Gea Testi mi ha prestato la macchina fotografica appartenuta a suo padre Massimo, uomo a cui ero molto legato e che oggi purtroppo non è più con noi.
Nonostante io mi reputi un fotografo tecnicamente molto scorretto, Gea ha notato in me la capacità di esprimere un interessante punto di vista; così ho deciso di buttare il mio occhio e il mio cuore nella fotografia, inventandomi anche il nickname Sanguedalnaso.»
Visto che lo hai tirato in ballo, ti va di spiegarci il perché di questo nome così particolare?
«Può sembrare strano, ma questo soprannome deriva proprio da un motivo “medico”, ossia dal fatto che, avendo i capillari piuttosto deboli, soffro di epitassi. Un giorno, mentre facevamo quattro chiacchiere al telefono, Gea mi ha suggerito di utilizzare il nickname Sanguedalnaso proprio perché la maggior parte delle mie foto nascono dalla casualità della realtà in cui mi imbatto camminando per strada. Insomma, come suggerisce la mia biografia di Instagram, si tratta di “scatti spontanei come la rottura dei capillari”!»
C’è uno stile fotografico al quale ti senti vicino?
«Amo particolarmente la street photography, forse anche a causa della mia passione per la street art. Dunque più che “fotografo” preferirei definirmi “pittore della realtà”: per me gli scatti che contano davvero sono quelli realizzati mentre cammino per strada con la mia macchina fotografica, senza seguire delle regole ben precise. Sebbene riconosca l’importanza dello studio, tanto che mi sono iscritto al corso organizzato dall’associazione Imago per approfondire alcuni aspetti della tecnica fotografica, non c’è nulla di accademico nelle foto che faccio ed anzi da questo punto di vista mi definirei un fotografo decisamente scorretto. Tuttavia, anche grazie al confronto con altri fotografi aretini, mi sono reso conto che i miei scatti mi rappresentano artisticamente e che, soprattutto, sono uno strumento indispensabile per raccontare me stesso.»

Photo by Gea Testi

 

 

 

 

Sbirciando sul tuo profilo IG ho notato un progetto in corso… Ti va di raccontarci qualcosa?
«Recentemente ho avviato un progetto che ha per protagonisti un mazzo di fiori finto e dei giovani ragazzi aretini che, rispondendo agli annunci postati sui miei social, hanno deciso di prendere parte a questo “gioco”. Ho così iniziato ad inserire nella poetica urbana, fatta di location metropolitane e zone industriali, delle figure umane; l’intento è quello di trasportare la purezza della persona comune e della normalità in dei contesti che invece sono assolutamente privi di delicatezza, come appunto le aree cementificate o i corsi d’acqua sporca.
Allo stesso tempo però appare il mazzo di fiori che, con la sua plasticità immutabile, costituisce una allegoria della finta purezza, quasi una sorta di presa in giro.
Tuttavia non sono ancora sicuro che questo sia il significato definitivo da attribuire al progetto, poiché si tratta ancora di un lavoro in divenire, che potrebbe migliorare (o, perché no, anche peggiorare!) insieme a me. Ma di una cosa sono certo: a prescindere da quello che sarà il risultato finale, l’importante è non buttare buttar via nulla del lavoro svolto. In questo senso credo che scattare fotografie sia come incidere dei brani musicali: il giorno dopo aver registrato un disco vorresti subito disfare tutto!»
Quindi possiamo dire che, sebbene sembrino due realtà molto differenti, esiste un filo conduttore tra il mondo della musica e quello della fotografia?
«Assolutamente sì, anche perché non ho mai creduto molto nei compartimenti stagni. Musica e fotografia sono due realtà fortemente interconnesse, sia perché il mio interesse per le immagini deriva in buona parte dalle foto viste sulle copertine dei dischi, sia perché la macchina fotografica, tanto quanto la musica, è uno strumento indispensabile per raccontare me stesso. Sebbene lo stare su un palco, in qualità di musicista o di organizzatore di eventi, rimanga una colonna portante della mia vita, so che ci sono sensazioni e concetti che non avrei saputo esprimere se non fotografandoli. Insomma, per dirla con una canzone del gruppo rock ManBassa: “non si parla mai di me nelle storie che non smetto mai di scrivere. Non si parla mai di me perché sono l’unico che non ha mai parlato. Me ne stavo ad ascoltare e annotavo su un quaderno le mie emozioni”.»

di AGNESE ANDREONI

IG: @sanguedalnaso.photos
FB: Sanguedalnaso Photo

Agnese Andreoni
AGNESE ANDREONI

Classe 1993, osservo ciò che mi circonda attraverso la mia macchina fotografica. Leggo tanto e a volte provo anche a scrivere.  Mi piacciono la musica (soprattutto quella punk), il mare, le lunghe camminate e i gatti.

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