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Mengo: diario sentimentale di una

trenta4enne aretina

Perché alla fine il Mengo non è solo un festival. È una chiamata alle armi per ogni aretino che si rispetti

E poi, come se non bastasse, quest’anno arriva anche Pupo. Sì, quel Pupo. Cinquant’anni di carriera, “Gelato al cioccolato” e una fanbase trasversale che va dai nonni al tizio col mullet che ascolta solo techno industriale… Beh, è chiaro che siamo di fronte a un evento mistico. Tipo l’eclissi, ma con la brillantina. Il Mengo è anche questo. Mescolare tutto. Far convivere passato e presente, musica alternativa e tradizione, sudore e sentimento, giovani con glitter e pensionati nostalgici. Perché tu ti senti uguale, ma il Mengo è cresciuto… Poi parte il pezzo giusto, quello che conosci a memoria, quello che non ti aspettavi, e all’improvviso sei di nuovo dentro. Presa benissimo. Sudata. Felice. Ecco, il Mengo fa questo. Ti porta in un posto che non sapevi ti mancasse, ti toglie gli anni dalle spalle per un’ora e mezza, e poi te li ridà tutti insieme quando ti alzi il giorno dopo con la schiena a pezzi e il mascara ancora lì. Ma lo rifaresti altre cento volte. Quindi? Quindi, niente. Anche quest’anno ho detto che non ci sarei andata, poi sono scesa in centro, ho sentito i bassi vibrare sotto i piedi, qualcuno urlava “questa è la hit della mia estate” su un pezzo che manco conoscevo. E lì ho capito, il Mengo non è solo un festival. É un rito, un punto fisso, un pezzo d’estate che ci portiamo dentro ogni anno. E io, sinceramente, non so se potrei vivere un’estate senza.
Con le scarpe sporche, la voce rotta, e la certezza che sì, anche stavolta, il Mengo ha vinto.

di VERONICA VALDAMBRINI

Giuro che ogni anno dico la stessa cosa: “Stavolta salto, basta Mengo, non ho più l’età.”
Lo dico con la convinzione con cui si dice “da lunedì… dieta” o “non gli scrivo più”. Che ho chiuso con le birre calde, i piedi impolverati e i ragazzini in canottiera che mi urlano nelle orecchie. Che ormai sono troppo vecchia per certe cose. Troppo stanca. Troppo tutto. Poi parte il primo post su Instagram, esce la line-up, qualcuno mi scrive “te ci vieni, vero?”, e io – che ho la forza di volontà emotiva di un bicchiere di plastica al sole – mi ritrovo già a scegliere se mettere i sandali comodi o quelli carini che mi distruggeranno i piedi. Spoiler: metto quelli carini. Mi distruggono i piedi. Perché alla fine il Mengo non è solo un festival. È una chiamata alle armi per ogni aretino che si rispetti. È il nostro piccolo caos d’estate, il momento in cui tutta la città decide di dimenticare che il giorno dopo si lavora, si hanno figli, tendiniti, o semplicemente un livello di socialità gestibile solo con due birre e un ventaglio. E io, che il Mengo l’ho visto nascere quando ancora era un evento laterale, incastrato in uno spazio post-industriale ai margini della città, quando c’erano più birre che persone. Eravamo tutti più giovani, più scemi, più sicuri che Arezzo fosse troppo stretta per contenerci. Ora è tutto diverso, o quasi. Il Mengo è diventato grande, come un adolescente che torna a scuola dopo l’estate e parla con una voce più bassa. Ha fatto il botto! Eppure, sotto sotto, è rimasto lo stesso di sempre. Una gran confusione di gente vera, di sorrisi mezzi ubriachi, di piedi sporchi. È il Mengo delle chiacchiere con la birra in mano, delle corse per prendere posto sotto al palco e dei panini alla porchetta mangiati in silenzio religioso. Il boomer con la maglia dei Pink Floyd che spiega quanto erano meglio i concerti “ai nostri tempi”. Il gruppo che fa picnic elettronico con luci led, cassa portatile e birra calda del Lidl e tra una canzone e l’altra, spunta anche il vecchino con la coppola, mani dietro la schiena, sguardo sentinella, che osserva tutto e sentenzia “Un c’era bisogno di tutto ‘sto casino”.
Ma poi resta fino alla fine. E nel mezzo, noi. I trentenni avanzati. Quelli con le ginocchia stanche, la scorta di moment in borsa e la playlist chiamata “recupero muscolare”. Ci guardiamo da lontano e ci riconosciamo: stesso entusiasmo, stesse rughe da sorriso, stesso bisogno di sentirci di nuovo leggeri. Anche solo per una sera.

Veronica Valdambrini
VERONICA VALDAMBRINI

Stylist, Graphic Designer e Fashion Writer. Fin da quando ne ho ricordo, sono sempre stata attratta da situazioni, stili e differenti tipi di bellezza. Continuamente alla ricerca del nuovo ed alla riscoperta del vecchio, si affiancano a musica Jazz, Portrait Fotografici e cultura giapponese, piaceri e fonti di ispirazione per il mio lavoro e stile di vita.

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