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TRICOLORE
L'Italia secondo Pupo e il Cile nel nuovo brano a quattro mani "Tricolore"

Un singolo uscito lo scorso gennaio ma che già profuma di tormentone estivo. Questo è ciò che accade quando il Cile, al secolo Lorenzo Cilembrini, scrive un pezzo su misura da cantare con Enzo Ghinazzi, in arte Pupo. Due cantautori aretini, due generazioni diverse. Colleghi e complici ormai da diversi anni, i due artisti simbolo della nostra città ci parlano di music business, del Festival di Sanremo e del loro brano, Tricolore.

Entrambi avete già raccontato l’Italia nella vostra musica. Come sono invecchiati Enzo e Lorenzo dai tempi di Italia amore mio e di Siamo morti a vent’anni?

C: «Tricolore nasce come un divertissement, il concetto è di ironizzare sul tris del poker e il tricolore che oggi è un vessillo spesso utilizzato per dare risalto al proprio orgoglio, anche se il mondo va in un’altra direzione. Non c’era intenzione di fare cose prettamente politichesi bensì di utilizzare lo strumento della satira e dell’ironia. Forse nei miei lavori precedenti c’era una patina più seriosa che paradossalmente, invecchiando, sto perdendo.»

P: «È vero, nel 2010 scrissi Italia amore mio e, insieme al Principe Emanuele Filiberto e al tenore montevarchino Luca Canonici, arrivammo secondi al Festival di Sanremo. Da allora sono naturalmente un po’ invecchiato ma solo fisicamente. Nello spirito e nell’entusiasmo sono ringiovanito, anche nel rapporto con il mio Paese. Sono sempre stato orgoglioso di essere italiano e in questi tempi dannatamente difficili lo sono ancora di più. Il nostro è un Paese straordinario, amato e imitato in tutto il mondo.»

A proposito di Sanremo, come avete vissuto questa esclusione? È cambiato il vostro rapporto con il Festival?

C: «Dinamiche del genere sono normalissime nel nostro mestiere. Abbiamo valutato questa possibilità ma eravamo coscienti che si trattasse di una semplice opzione messa sul piatto. Se uno non è cosciente di questo non ci prova neanche. Personalmente, che partecipai in un periodo nel quale il Festival veniva visto con un po’ di snobismo da quel circuito chiamato Indie, ho sempre riconosciuto la sacralità di quel palco.»

P: «L’esclusione dal Festival non ha alterato di un soffio il mio equilibrio. Nella mia vita ho vissuto delusioni e disfatte molto più gravi che mi hanno forgiato e reso insensibile a queste sciocchezze. Il mio rapporto con il Festival è sempre lo stesso: io non devo niente a Sanremo e Sanremo non deve niente a me. Quando nel 1980 vi partecipai per la prima volta ero già un cantante di successo e la kermesse stava faticosamente uscendo da un periodo nero. Fui più utile io a Sanremo che lui a me ma in seguito è anche successo che i ruoli si siano invertiti. In questo do ut des siamo pari.»

Come vedete cambiato il nostro paese, dal punto di vista musicale, negli ultimi dieci/quindici anni? Il bilancio tende ad essere più negativo o positivo?

C: «Un aspetto che trovo positivo oggi è il fatto di poter fare una produzione dignitosa con questo telefono. È ovvio che possa spaventare l’idea di fare un disco senza un cantante, con l’uso dell’IA, ma come in tutti i periodi storici occorre trovare il modo di rendere artisticamente valida l’evoluzione. Penso che dal punto di vista dei contenuti tutto sia sempre ciclico e specchio dei tempi; questo è un periodo di transizione, arriveremo ad un momento in cui il concetto di canzone magari cambierà radicalmente oppure ritornerà a quel rapporto più viscerale tra scrittura ed esecuzione.»

P: «Il cambiamento c’è sempre e non solo nella musica. Tutto cambia ma, nell’essenza, niente mai cambia. C’è da dire che l’originalità delle composizioni è ormai finita da tempo. In pratica, da quando è stato inventato il primo riproduttore di opere musicali, sono cominciate le repliche. I giovani artisti faranno fatica ad imporre le loro opere nel corso dei decenni. Ormai siamo entrati nell’era della velocità, tutto è veloce, anche gli ideali e gli eroi non durano più niente. Detto ciò, alcune canzoni scritte da questi ragazzi mi piacciono e grazie anche a Sanremo e ad Amadeus, l’industria musicale italiana sta riprendendo ossigeno.»

Qual è stato, nel corso delle vostre carriere, il vostro rapporto artistico e non con la città di Arezzo?

C: «Puoi andartene quanto vuoi ma Arezzo non se ne potrà andare mai da te. Per la mia generazione Arezzo è sempre stata al passo coi tempi, ho visto molti coetanei che sono riusciti a realizzarsi, forse perché noi degli anni ‘80 siamo stati gli ultimi ad avere un minimo di paracadute tra una vita concreta e questa vita 2.0 dove virtuale e reale si fondono. Non smetterò mai di volere bene ad Arezzo e mi fa sempre piacere vedere il fermento delle nuove band e della nuova musica, c’è una tradizione da Guido Monaco in avanti che va preservata.»

P: «Ho vissuto Arezzo in tutte le salse. Adolescenza, scuola, lavoro, amori, gioie e delusioni, hanno sempre visto Arezzo protagonista. Il mio rapporto con la città è molto sincero e rilassante. Non potrei fare a meno di vivere i pregi, i difetti e le contraddizioni di noi aretini.»

 

di GABRIELE MARCO LIBERATORI

Credits Angelo Trani (foto Pupo)

Gabrile Marco Liberatori
GABRIELE MARCO LIBERATORI

Laureando in lettere antiche, chitarrista dall’animo rétro, cultore di teatro e storia dell’arte. Ritengo che la conoscenza dell’espressione e del pensiero umani da Omero fino ai giorni nostri sia l’unica chiave per elevare il nostro spirito al di sopra di un vacuo imperante materialismo. Il mio motto è “E l’omo vive”, perché non c’è buona speculazione intellettuale senza un calice di rosso e un piatto di leccornie regionali.

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