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Viaggiare nell’Etere

Matilde Brizzi, speaker radiofonica di Radio Lattemiele, dove tutti i giorni va in onda col proprio programma “Caffè e Cliché"

Matilde Brizzi, biturgense di nascita ma milanese di adozione, “cresciuta al pubblico” nel locale dei suoi genitori – dove ha imparato a interessarsi alle conversazioni accidentali, fatte con gli sconosciuti – presentatrice di giorno e curatrice di sera. È questa la punchline giusta per raccontare Matilde Brizzi, speaker radiofonica di Radio Lattemiele, dove tutti i giorni – durante la settimana – va in onda col proprio programma “Caffè e Cliché”.
Come nasce la tua passione per la radio?
«Quando ho iniziato a fare radio, un po’ per caso, ho subito pensato che fosse una cosa molto “ganza”. Io ho studiato Design e Comunicazione, specializzandomi in Curatela; una materia in cui il pubblico è un elemento importante, che ho poi traslato anche nel contesto della musica. In Olanda, alla Design Academy dove ho studiato, c’era una radio affiliata; lì ho curato alcuni show in lingua inglese. Quando mi hanno consigliato di provare seriamente a fare radio, ho pensato che per farlo sarebbe stata necessaria la fluidità della mia lingua madre; quindi mi sono trasferita a Milano. Ho iniziato così, frequentando successivamente un’Accademia di radio (Accademia09 – NdR), che è a tutti gli effetti un mestiere. In Accademia un professore ne ha dato una definizione bellissima, dicendo che noi radiofonici siamo “i maggiordomi della musica”.»
“Caffè e Cliché” è il tuo programma sulla quotidianità, in qualche modo il tuo figlio di onde sonore. Parlacene.
«Si tratta di una “fascia”, un programma che va in onda dal lunedì al venerdì, dalle 10.00 alle 12.00: un orario abbastanza ostico, non essendo un “drive time”. Proprio per via dell’orario, io ho voluto immaginare un bar: l’italiano a quell’ora è impegnato, ma fa comunque tante, interminabili pause caffè. La mia ambizione è dare agli ascoltatori qualcosa di cui parlare davanti alla macchinetta del caffè, potenzialmente con altri sconosciuti, con amici oppure – perché no – anche con “nemici”. C’è poi la parola “cliché”, affascinante e pericolosa: con la Direzione Artistica abbiamo scelto un termine che “uscisse” un po’ dall’Italia, per portare l’ascoltatore anche verso usi e culture differenti, in un contesto come la radio, già di per sé libero da limiti geografici. Io, poi, sono affascinata dalla banalità; come diceva una famosa scrittrice africana, se una cosa si ripete e viene replicata, significa che qualcosa è successo, che deve avere un qualche significato. I cliché sono storie incomplete, non sono mai indagati, poiché ritenuti scontati, e invece nascondono un mondo dietro di sé. L’obiettivo, in mezz’ora di tempo, è quello di sfiorare la profondità e “scioccare” un popolo che naturalmente riverisce, come il nostro.»

La radio è intrattenimento, ma anche informazione. Trovi che sia più “libera” rispetto ad altri media, su tutti la televisione?
«Io la definirei piuttosto un mezzo più sincero, meno costruito e artificiale. La radio è live, è tutto one shot, non puoi rifarlo. Ed è anche per questo che la mia impressione, il mio gusto, la mia preferenza nel dare una notizia, in qualche modo, trapelano sempre. Il mio trucco per riuscire ad affrontare anche temi più seri e “pesanti” è parlare della quotidianità, e il mio obiettivo è quello di lasciare qualche “perché” agli ascoltatori. Come mezzo forse non può dirsi particolarmente libero, ma il suo pregio è quello di avere due ingredienti per attirare l’attenzione delle persone: l’intrattenimento e la musica. É inoltre un mezzo molto diretto: la voce raramente mente, e in radio io sono solo una voce. Questa è un’altra magia.»
Il pubblico della radio è molto particolare, spesso randomico e “casuale”: come si riesce a farlo affezionare?
«Chi è legato alla radio non vorrebbe mai vederla morire. Abbiamo parlato spesso di questo tema: il primo video lanciato su MTV nel 1981 fu, non a caso, “Video Killed The Radio Star”. Tuttavia, né i video, né la TV, né i podcast sono riusciti a “uccidere” la radio. Sul discorso del coinvolgimento del pubblico, ricordo che un altro mio professore una volta mi disse: “tu devi immaginare di essere seduta in macchina, accanto al guidatore, e devi raccontargli qualcosa”. Un altro aspetto interessante è quello della distrazione: la radio è un medium che non necessariamente ti canalizza, il che è bello, perché il suo ruolo è semplicemente quello di farti compagnia. Allo stesso tempo, come diceva Finardi, “la radio non ti fa mai smettere di pensare”. Il coinvolgimento degli ascoltatori si gioca su un equilibrio molto sottile: da un lato devi farli immedesimare, parlando loro in modo molto semplice e diretto, ma anche personale; dall’altro, non puoi fare “Radio Cazzi Miei” (ride – NdR), perché al pubblico questo non interessa. Il trend è quello di fare radio in modo corale: questo serve in qualche modo a dare anche all’ascoltatore una propria voce. Il pubblico della radio è grande, variegato, ma fondamentalmente semplice. Io so di saper parlare alla “provincia”, perché di base è da lì che vengo. I tempi non sono ancora maturi per colmare un gap generazionale indubbiamente presente, ma questa è comunque un’opportunità che abbiamo. Parlare in modo semplice e triviale da un lato è uno scalino, ma dall’altro è un esercizio grandioso per la critica e per il cambiamento, fosse anche solo in piccolo.»

di GEMMA BUI

IG: @matildebrizzi | @radio_lattemiele

Gemma Bui
GEMMA BUI

Studentessa, musicista, cultrice dell’Arte variamente declinata. Con la scrittura, cerco di colmare la mia timidezza dialogica. Nelle parole incarno la sintesi – e non la semplificazione – della realtà. Credo nella conoscenza come mezzo per l’affermazione di sè e come chiave di lettura dell’esistere umano.

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