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SPECIALE MENGO FEST

Queste le interviste contenute nelle 8 pagine di Mengo Magazine, inserto speciale di WEARE #34

Intercettare il Trascendente
Piccoli spunti tra musica e spiritualità
di PAOLO BENVEGNÙ

Il pezzo è apparso originariamente su “Domani”;  ringraziamo il quotidiano per la concessione di utilizzo

Mi sono accorto della musica, veramente, non prima dei miei cinquant’anni. Abitavo in una piccola città del centro Italia, non avevo la lavatrice. Un pomeriggio di novembre, soleggiato, mi reco alla laundrette automatica, intorno alle 15. Metto i miei capi a lavare, esco sul marciapiede prospiciente. Noto che di fianco a me, tre signori entrano in un negozio ad una vetrina. Dentro, lo spazio è quasi interamente occupato da un’enorme macchina per ciclostili. I tre pensionati entrano nella tipografia ormai obsoleta e in dismissione. Ognuno di loro indossa, come ritualmente, un camice grigio, ed incomincia ad oliare la macchina. Mi sono immaginato che si chiamasse Berta, la macchina. Poi, senza alcun lavoro tipografico da compiere, accendono la Berta e si siedono. In fila, su sgabelli di fortuna, la guardano operare, la Berta, ma senza stampare nulla.

Gli occhi chiusi. Solo il rumore della meccanica. Questi uomini, forse non volevano arrendersi al tempo, alla mancanza di appartenenza al nuovo mondo. Una ribellione guidata dal suono della loro macchina, la musica della loro vita. Mi è sembrato, all’epoca, ciò che di più religioso e Trascendente io avessi mai incontrato. Sacro. Perché, come nelle religioni monoteiste, si crede al Silenzio ed all’Assenza. Tutto viene dal silenzio e dalla mancanza. Il rumore, come musica, come fonte di Vita e di conforto.

Un’orchestra poi, ho visto. Nella valle dei templi, una sera di fine estate. Aspettare l’attacco del direttore, le mani in aria per svelare l’attacco. In quel silenzio di attesa, in quell’infinito indugiare sulla pausa, nella tensione di ciò che verrà, ho visto tutti gli uomini e le donne del mondo, di tutti i tempi. Insieme a loro, le loro divinità e le loro convinzioni, il possibile e l’impossibile fondersi insieme, sciogliersi. Non nel primo accordo, ma nel silenzio della costruzione di una realtà finalmente accettabile da tutti. Una somma di tutte le realtà percepite e non… Musica infinita dalle realtà adiacenti.

Nel viaggio di ritorno, sul ponte della nave traghetto che mi riportava a Napoli, come una folgorazione. Nella notte di bonaccia, nella navigazione alla luce di una luna arancione ed opalescente, io da solo sul ponte. Con me, le voci delle mie moltitudini, delle moltitudini di ogni passeggero passato e futuro di quel natante. I giochi dei bambini, i vettori nello spazio tracciati dalle braccia dei danzatori, dei nuotatori sincronizzati, della nave stessa, degli sguardi degli innamorati. La profondità assoluta degli abissi e dei loro abitanti. In quel Silenzio di spazio strappato al mare, nel profumo di gasolio, l’inizio della Sagra della Primavera di Igor Stravinskij ed ogni tentativo di Creazione…

La creazione come abbandono all’universo, alle forze misteriose. Una resa creativa all’impossibile da raggiungere. Una lacrima scende. Forse è il vento notturno, oppure l’insonnia. Non so bene. La musica del mondo, anche di questo mondo elettrico, dove il silenzio non è il vero silenzio, è un gioco serissimo e chi la pratica veramente sa che si mette in Ri-Creazione, giacché già il mondo naturale in sé è bastevole ampiamente a sé stesso.

Cosi, noi siamo creature supplementari, incapaci di abitare, di abdicare al ruolo dominante. Forse, però nella tensione verso questo diaframma tra resa all’infinito e volontà di Potenza, persino gli uomini hanno un ruolo diverso dall’essere distruttori. Forse, un giorno, gli esseri umani riusciranno a fondersi con l’Altro. Con l’Alterità. E forse lo faranno Bonariamente, senza boria, con Generosità. Vedremo crescere nuove forme di vita: alberi-bambina, fiori-dita, pietre-giardiniere, pesci- palafitte, uomini volanti, velocissimi e sorridenti.

Questo ho pensato. O forse era un sogno, spezzato alle cinque di mattina dal profumo di croissant per le colazioni ai naviganti. Sono passati nove anni da allora. E poco ho compreso ancora della vita, dell’amore, della danza e della disattenzione. Ma sono certo che gli esseri umani debbano non essere istruiti, ma educati sentimentalmente. E che le musica, come tutto ciò che concerne l’umano, senza tensione alla trascendenza ed alla indeterminatezza sia solo folklore, posa, paradiso artificiale, narrazione di narrazioni. Sterile. Poi esco. In un giardino, all’alba, si schiude un tulipano. E nella musica di quello schiudersi, io Credo ancora e sempre di più, all’impossibile.

Testi a cura di Pierfrancesco Pacoda.
Intervista a Paco Mengozzi di Lorenzo Stiatti.
Joan Thiele
«Con il mio ultimo album è avvenuta una specie di guarigione, di riconciliazione con quello che sono… La musica riesce a fare anche questo»

Le sue partiture sono sofisticati omaggi allo straordinario patrimonio della musica da film composta in Italia negli anni ‘70. Quando le colonne sonore erano per tanti direttori d’orchestra e autori occasione per ricostruire un universo esotico, quando ancora la definizione di world music non esisteva. Joanita, il suo nuovo album, è un continuo stratificarsi di trame a tratti volutamente polverosi, che portano in superficie il calore umido della terra dove ha vissuto quando era molto piccola, la Colombia. Per Joan Thiele i festival sono stati i posti della conoscenza della nuova musica.
Joan, quando hai scoperto i festival?
«Ero molto giovane e vivevo in Inghilterra, ero sempre alla ricerca di nuova musica dalla quale farmi stupire e i festival erano il luogo dove cercarla. La mia introduzione nell’universo del suono e anche il motivo per il quale ho deciso che cantare sarebbe stato il mio lavoro, è stata proprio la frequentazione dei festival. Lì ho imparato quando sia importante essere pronti ad accogliere le diversità culturali.»
Cosa ti affascina, in un festival, oltre alla musica?
«Stare insieme, riscoprire l’importanza del nostro essere sociale. Abbiamo bisogno, ognuno di noi, degli altri, e invece ci condanniamo da soli all’isolamento. I festival sono un bellissimo antidoto a tutto questo. Bisognerebbe che fosse riconosciuto il loro valore terapeutico, da sottolineare sempre e da preservare.»

Una terapia, quella del suonare e frequentare i festival, che hai provato sulla tua pelle.
«Si l’ho provata con successo. Io ero affetta da una fortissima timidezza, a volte mi impediva di godere della normalità delle relazioni tra le persone e per chi vuol fare il mio mestiere, come potete immaginare, è un problema. E la mia medicina sono stati proprio i concerti. Quando salgo sul palco è come se entrassi in una no filter zone, dove, appunto, sento che si scioglie, si disintegra, qualsiasi barriera possa ancora esistere tra me e il pubblico. Venite al Mengo e ne percepirete gli effetti positivi, che non riguardano solo me, ma anche chi ascolta le canzoni.»
Ad iniziare da quelle del tuo bellissimo nuovo album, Joanita.
«Ecco, a proposito di terapia, quello che ho detto per i concerti per me vale anche per questo disco.
Scriverlo ha significato scavare nel profondo dentro me stessa. Una sorta di auto analisi che, se non fossi stata obbligata (ovviamente piacevolmente, amo follemente il mio lavoro) a provare per realizzare l’album non credo avrei mai fatto. Il risultato, quindi, non è soltanto artistico, ma è avvenuta una specie di guarigione, di riconciliazione con quello che sono. La musica riesce a fare anche questo!»
Tu continui ad andare ai concerti.
«Si, appena posso, sono la mia accademia musicale. Ho ricordi incredibili di festival in giro per l’Europa. Come quando ho scoperto Michael Kiwanuka nel 2020 e James Blake nel 202l al The Green Man Festival in Galles. E ho percepito proprio in queste occasioni che quello che conta, quello per cui saliamo sul palco è divertirci. Noi e il pubblico!»

Giorgio Poi
«L’emozione di salire sul palco non è un ostacolo, ma quella magia che ti fa cambiare la scaletta che magari hai studiato per mesi»

Voce suadente, testi che esplorano il nostro versante più intimo, riflessivo; intrecci virtuosi di poesia e melodia che rimane impressa sin dal primo solco. È un’esperienza di crescita, l’ascolto di un disco di Giorgio Poi, cantautore italiano dalla vocazione internazionale, ma è soprattutto nella dimensione dal vivo che riesce a creare una relazione personale con il suo pubblico. Schegge è il titolo del suo recente album che, presenterà, insieme alle canzoni più belle dei dischi precedenti, al Mengo Music Fest.
Giorgio, quanto devi ai festival la tua formazione come artista?
«Io ho vissuto a lungo in Inghilterra, dove la cultura del festival è parte della quotidianità e ovviamente abbiamo un’offerta vastissima. Frequentare sia i grandi che i piccoli appuntamenti con la musica dal vivo, significava confrontarsi con chi sui palchi era già arrivato. Per cui consumavo ore a cercare di scoprire i segreti dei gruppi che si esibivano. Come si muovevano sul palco, i tempi giusti tra un brano e l’altro, il momento nel quale l’applauso sarebbe stato più trascinante di un altro. Quella dei festival è stata la mia scuola.»

Prima in Inghilterra e poi in Italia.
«Certo, il primo festival veramente memorabile al quale ho partecipato come artista è stato il Mi Ami del 2012. Eravamo su una collinetta e ci esibivamo con artisti come gli A Classic Education e Brunori SAS. In quel momento sono passato da spettatore a protagonista e ha avuto chiaro che quella sarebbe stata la mia vita.»
Non eri ancora molto noto.
«Ero praticamente sconosciuto, un esordiente. E mi sono trovato davanti il pubblico dei grandi avvenimenti, veri appassionati che erano lì perché sapevano che lì avrebbero trovato la migliore musica italiana indipendente, quella più attenta alla sperimentazione. Era bellissimo, ma anche complesso. Dovevo convincere gli spettatori, conquistarli, tirare fuori da qualche parte le migliori energie e tutte le risorse che possedevo.»
Con cosa bisogna fare i conti prima di salire su un palco?
«Con l’emozione. Succede ogni volta, anche adesso e sarà cosi anche al Mengo. Ma non è un ostacolo, al contrario è quella magia, quel sentire imponderabile che ti fa cambiare la scaletta che magari hai studiato per mesi, sostituendo un pezzo provato sino a conoscerlo alla perfezione con uno del quale sul momento non ricordi le parole, ma che ti sembra possa servire a instaurare un rapporto di comunanza con chi ti ascolta. E le parole che credevi di aver dimenticato, all’improvviso arrivano.»
Cosa ti ha insegnato, sino a questo momento, il bellissimo lavoro che adesso fai con successo?
«Ho imparato che bisogna avere il coraggio di provare, di rischiare tutto, anche se sai quanto instabile è il lavoro che ti sei cercato e il sogno che insegui. Io l’ho fatto quando frequentavo il Liceo e vivevo a Firenze. È difficile, ma oggi lo è qualsiasi strada scegli di intraprendere. Per cui meglio assecondare le proprie aspirazioni e non scoraggiarsi se all’inizio, quando sali sul primo palco importante, nessuno ti conosce. Prendi le misure a catturali. Come succederà al Mengo.»

Ph Magliocchetti_Hi res

Dov’è Liana
«Noi suoniamo per la festa, per il piacere di urlare, di ballare, conoscersi e toccarsi»

È una ricostruzione perfetta dell’Italia, come piace a chi la visita. I colori del Mediterraneo, le atmosfere delle strade piene di gente. La festa. Questo l’immaginario reinventato dai Dov’è Liana, il trio francese che infiamma il pubblico dei club e dei festival con l’eleganza vellutata del French Touch, versione italiana.
Ogni vostro concerto si trasforma in una celebrazione edonistica.
«Noi suoniamo per la festa, per il piacere di urlare, di ballare, conoscersi e toccarsi. E questo è molto italiano, fa parte dello spirito, dell’essenza del vostro Paese. Per questo il rapporto con l’Italia è per noi così importante. Cerchiamo di ricreare il party che potremmo organizzare a casa quando i genitori ce la lasciano libera, ma nei grandi spazi all’aperto. Siamo molti di più, ma è come se, alla fine, ci conoscessimo tutti.»
Pura energia.
«Si, una energia che nasce non dall’elettronica, che pure è il linguaggio che utilizziamo per le nostre canzoni e i nostri spettacoli, ma dall’amore per il rock’n’roll. Tribale, distorto, elettrico, con gli assoli che scaldano il corpo e riempiono il cuore.»
Come quelli di chitarra elettrica che caratterizzano i vostri live.
«Noi nemmeno sapevamo che uno di noi sapesse suonare così bene la chitarra. Eravamo in studio per provare un nuovo brano e abbiamo pensato che ci voleva il suono di quello strumento per far diventare il pezzo molto più rock. Volevamo, come sempre, crearlo digitalmente, quando ci siamo detti, perché farlo fare alle macchine quando può farlo uno di noi?»
Perché per voi la musica è un gioco.
«Lo è; è nato tutto per divertimento, durante un soggiorno nella casa siciliana di uno di noi, che ha, appunto, i parenti sull’isola. Ci chiedevamo come sarebbe stato far ballare i nostri amici con una playlist non compilata su Spotify, ma fatta di nostri brani. E ci abbiamo provato. Il risultato lo conoscete”.»

French Touch o Italo disco?
«Spesso non riusciamo a coglierne le differenze. French Touch perché quella è la dance music che ha fatto da colonna sonora alle nostre prime notti adolescenziali fuori. Ma quel suono non ci sarebbe stato se non avesse potuto attingere dalla straordinaria generazione di produttori italiani, che hanno ridefinito la dance music, dimostrando che un altro ritmo per i club era possibile, fuori dalle produzioni inglesi e americane.»
Possiamo dire che i Dov’ è Liana hanno portato nella dance music il Sicilian Touch?
«La Sicilia è per noi un posto ideale e idealizzato; Palermo, i suoi mercati, il mare, il caldo così incombente, le persone, sono lo scenario perfetto per ambientare le nostre storie che sanno di salsedine e di abbracci. Vogliamo stringerci forte al pubblico, cantare all’unisono con loro i testi delle nostre canzoni, che sono semplici, perche devono essere urlati sino a perdere la voce.»
Tre artisti italiani con i quali vi sentite in sintonia.
“Andrea Laszlo De Simone, che in Francia è molto celebre e che noi amiamo visceralmente, Lucio Corsi, abbiamo guardato Eurovision per lui e Pop X, perché anche per lui il concerto è sempre una festa!»

Il Mago del Gelato
«La cultura musicale afroamericana ci ha ispirato moltissimo, il funk, la fusion e il jazz, ma anche le colonne sonore dei grandi compositori di musica per film e il prog italiano»

Jazz acido, soul e funk, ascolti importanti, la musica afro americana della tradizione e quella contemporanea. Tutto riletto aggiungendo il sentire edonistico della pista da ballo. Questo è Il Mago del Gelato.
Il vostro suono sembra uscito dalla scena dell’acid jazz inglese. Cosa vi lega a quel suono e come lo avete scoperto?
«Siamo particolarmente legati alla scena inglese. Ci piacciono gli Incognito, ma anche molti dei progetti che sono stati prodotti da Gilles Peterson, il famoso speaker di BBC radio e fondatore della Brownswood Recordings (es. Kokoroko, Ezra Collective, Nerija e Yussef Kamaal…). Una cosa che ci colpisce molto della scena jazz contemporanea inglese è il fatto che la musica che suonano è fortemente incentrata sulla danza e sul rapporto tra pubblico e band. Abbiamo avuto modo di sentire dal vivo molti di questi gruppi e sicuramente ci hanno ispirato nella scrittura dei nostri brani.»
Più in generale sono forti nel vostro suono i richiami alla cultura sonora afro americana. In che maniera la declinate?
«La cultura musicale afroamericana ci ha ispirato moltissimo, il funk, la fusion e il jazz. Uno degli artisti di questa corrente che abbiamo ascoltato tantissimo è Herbie Hancock. Dobbiamo molto alla sua continua ricerca sonora. È un artista cangiante che ha avuto un percorso musicale unico, è partito come pianista in uno dei quintetti di Miles Davis, è stato tra i primi a suonare il jazz funk ed a utilizzare il vocoder come strumento e ha registrato anche delle colonne sonore.»
Se doveste dire quanta italianità c’è nella vostra musica, a cosa pensereste?
«Condividiamo la passione per le colonne sonore dei grandi compositori di musica per film, per il cinema italiano anni Settanta, ma anche il prog italiano è sicuramente un riferimento per la nostra musica. Questi generi hanno rappresentato per noi una tappa importante nel percorso formativo, anche se in modi e tempi diversi.»

Quanto è stato importante, per molti di voi, lo studio alla Civica di Milano?
«La cosa, per chi di noi ha studiato alla Civica, che ci ha arricchito di più, è stato il poter avere come maestri dei docenti che hanno fatto la storia del jazz in Italia: D’ ‘Andrea, Fasoli, Soana, Intra e moltissimi altri. Anche solo avere modo di sentirli suonare e raccontare aneddoti legati al Capolinea (locale storico di Milano) è stato incredibile!»
Che esperienza è per voi quella dell’andare a un festival?
«Avendo la fortuna di fare tour, ci troviamo in tante situazioni di musica dal vivo e anche in festival con tantissimi gruppi e questo ci ha dato la possibilità di entrare in contatto con artisti che altrimenti non avremmo mai scoperto. I festival ci hanno permesso di conoscere Venerus e Le Feste Antonacci, da questi incontri sono nate le collaborazioni che trovate nel nostro ultimo disco Chi È Nicola Felpieri?
L’atmosfera che si respira durante i festival è elettrizzante, è un momento di condivisione ed è l’occasione di sentire tanta musica nuova. Abbiamo molti bei ricordi legati ai festival a cui abbiamo partecipato. Uno di quelli che ci ha colpito di più è il Wildeburg, un festival olandese poco distante da Amsterdam; ci siamo trovati in una situazione assurda, i palchi erano 14 e sembrava di essere a Woodstock, i giorni prima aveva diluviato ma non importava a nessuno, la gente era nel fango a ballare a piedi scalzi.»

Fitness Forever
«Un concerto fluido, da ballare; sarà come entrare nella vostra discoteca delle meraviglie. La più bollente che possiate immaginare»

È un invito, un’esortazione, quella contenuta nel nome che hanno scelto. Fitness Forever, una delle espressioni più originali della vivace scena della Nuova Napoli che si è sedimentata intorno ai Nu Genea e alla riscoperta del turbolento e misconosciuto movimento disco funk degli anni 70. Quello documentato nella serie discografica Napoli Segreta. Amore e salute è il loro ultimo album.
Carlos Valderrama, il gruppo del quale sei leader insieme a Luigi Scialdone; i Fitness Forever sono pura energia. Cosa aspettarsi dal vostro concerto al Mengo Music Fest?
«Ritmi funk, incursioni nello straordinario patrimonio della cultura sonora afro americana, un’immensa pista da ballo tra Napoli, i Tropici e New York. Noi siamo un’espressione di quella molteplicità di saperi, soprattutto sonori, che si intrecciano naturalmente per le vie della nostra città. Un concerto fluido, da ballare; sarà come entrare nella vostra discoteca delle meraviglie. La più bollente che possiate immaginare.»

Quanto è stato importante, per voi, frequentare i festival?
«I festival sono una scuola, frequentarli è importante quanto migliorare le proprie capacità come musicista. Devi vedere gli altri in azione, se vuoi che la tua proposta sia efficace. Devi imparare a definire il concetto di comunità, quell’attimo irripetibile nel quale ognuno si fonde con gli atri, diventa parte del tutto.»
Che è l’aspetto più affascinante dei festival.
«Sono esperienze che ti segnano. Se vai a Glastonbury, per citare quello che per me è il festival che almeno una volta nella vita bisognerebbe frequentare, assimili così tante informazioni che poi riverserai nel tuo lavoro. Ma ci sono tante realtà che, anche in Italia, hanno a cuore il benessere mentale del pubblico. E sono sicuro che sarà quello che succederà al Mengo.»
Da qualche anno, la tua città, Napoli, sembra essere tornata al centro degli itinerari musicali internazionali.
«Buona parte del merito è del successo dei Nu Genea, che sono proprio un esempio di collettivo sonoro che si fa laboratorio. Intorno a loro gravitano tantissimi musicisti che nutrono poi la scena, la fanno sentire vitale, affascinante. Come succede spesso, tutto nasce da un piccolo nucleo di artisti che mutano, danno il loro contributo alla valorizzazione di giovani talenti. Tutto è sempre in movimento e questo si riflette in maniera molto forte sulla creatività.»
Parlavi di intrecci. Il vostro singolo A vele spiegate ne è l’esempio.
«Si, noi siamo un gruppo aperto e sulla strada del funk, incontriamo artisti anche lontani dalle musiche che abitualmente suoniamo, ma con i quali ci piace dialogare. Uno è Calcutta, io suono il piano con lui, nei suoi concerti da molti anni e ha voluto arricchire con la sua voce il nostro singolo A vele spiegate, un’avventura funk carioca travolgente che è un’istantanea sullo stato di grazia del Neapolitan Sound contemporaneo. Che rende, al tempo stesso, omaggio alle sue meravigliose radici. Per questo al fianco di un cantautore contemporaneo come Calcutta, abbiamo voluto, nello stesso brano, una stella fuori dal tempo come Alan Sorrenti.»

Ph Sabrina Cirillo

Fast Animals and Slow Kids
«I festival sono il cuore della nostra esistenza, è lì che ci sentiamo realmente realizzati»

Tutta l’energia del punk, tutto il potere suadente della melodia. Rabbia e amore possono incontrarsi e generare canzoni pop che grondano desiderio e socialità, disillusione e sguardi obliqui nella realtà. Succede, con i Fast Animals and Slow Kids, ospiti attesissimi del Mengo Music Fest.
Una vita trascorsa passando da un club a un’arena, da un teatro a un festival. Come il Mengo.
“I festival sono il cuore della nostra esistenza, è lì che ci sentiamo realmente realizzati. Non solo come musicisti, ma anche come appassionati, sempre alla ricerca del nome nuovo che è pronto a stupirci e noi ancora non lo sappiamo.”
Come i tanti nomi nuovi che sono passati dal festival “L’ Umbria che spacca”, organizzato da Aimone Romizi.
«Io – dice Aimone – ho poi un altro punto di vista ancora, quello di chi un festival lo cura e lo fa proprio perché pensa che da questo genere di appuntamenti passi la valorizzazione dei talenti ancora sconosciuti. È lì che si sviluppa una nuova scena, nel rock come nell’elettronica. E vedere i ragazzi che, finalmente, hanno la possibilità di incontrare un pubblico autentico, di confrontarsi con le band già affermate, è una soddisfazione inarrivabile, quella che realmente ti fa andare avanti e accettare tutte le complessità che mettere in piedi un festival comporta.»
Ci sono festival, all’estero, dove vi siete davvero divertiti e avete fatto delle scoperte musicali?
«Tantissimi! La geografia dei festival è ricchissima e il turismo musicale è una delle maniere più belle di trascorrere le vacanze. Noi lo consigliamo. Ad iniziare proprio dal Mengo, che è una vera esperienza dal respiro internazionale. All’estero frequentiamo soprattutto festival punk e di hard rock, le nostre passioni sonore. Consigliamo vivamente, dopo essere stati al Mengo, di prevedere un viaggio in Slovenia, dove, dal 5 all’8 agosto, va in scena il Punk Rock Holiday. Se volete fare una vera immersione nel cuore delle chitarre elettriche distorte, del rumore che ti prende e ti porta via, della socializzazione massima, questo è il festival dove bisogna assolutamente andare. Può essere che ci incontriamo lì, passando da un palco all’altro alla ricerca della band sconosciuta che potrebbe cambiare le vostre e le nostre vite!»

Come scegliere, tra le tante offerte che spesso i festival propongono, a volte con tanti artisti che si esibiscono in contemporanea?
«Semplice! Basta non scegliere e lasciarsi trasportare dalla sensazione del momento, crearsi un percorso mentale che non bisogna rispettare e aprire la propria mente, per godere sino in fondo dei giorni del festival, vivendoli come se fossero una realtà parallela, che scorre in una dimensione diversa da quella della quotidianità.»
Se, da musicisti, doveste definire con una espressione un festival, cosa direste?
«Per noi i festival sono dei corsi di aggiornamento concentrati ed eccitanti. E sono spazi del sapere dai quali attingere, dove trovare le fonti di ispirazione, che poi diventano la nostra musica, che a questi grandi appuntamenti è sempre debitrice.»

Ph Tommaso Piscitelli

Paco Mengozzi
«Abbiamo selezionato artisti che fossero rappresentativi di una certa scena musicale di qualità, scommettendo su musicisti non ancora conosciutissimi al grande pubblico, nel tentativo di anticipare i tempi»

Ad un anno dall’intervista fatta per il ventennale del Mengo Music Festival, torniamo a parlare con Paco Mengozzi riguardo a ciò che ci aspetta in questa ventunesima edizione del festival.
Mengo numero 21, ci siamo! Cosa ci dobbiamo aspettare?
«La costruzione di questa edizione è stata inizialmente una sfida per noi, visto che dovevamo confrontarci con la precedente grande festa dei vent’anni. Successivamente però abbiamo subito ritrovato lo slancio, forti del fatto che negli ultimi anni il Mengo ha trovato una sua quadratura e logica precisa, come proposta in gran parte gratuita. Ci siamo quindi rimboccati subito le maniche per trovare artisti che fossero rappresentativi di una certa scena musicale di qualità, scommettendo su musicisti non ancora conosciutissimi al grande pubblico, nel tentativo di anticipare i tempi.  Una tra di loro è sicuramente Lucio Corsi, che già prima di Sanremo avevamo idea di invitare al festival e che abbiamo contattato a dicembre dello scorso anno. Accanto a questo percorso, troviamo poi la ricerca nella costruzione di serate che abbiano una certa logica e che propongano una buona varietà, come quella degli Afterhours, unica data a pagamento, che sarà un’occasione imperdibile per poter ascoltare dal vivo il loro iconico album “Ballata per piccole iene” che ha compiuto vent’anni.
Si spazierà comunque tantissimo nei generi e negli artisti, proponendo anche momenti più particolari e da scoprire, come la serata di mercoledì 9 con Joan Thiele e Giorgio Poi, oppure quella di venerdì 11 con Il Mago Del Gelato, Dov’è Liana, Adi Oasis, Fitness Forever. In mezzo a tutto questo abbiamo anche sparso delle chicche come Boss Doms, Ralf e Samuel dei Subsonica.
Martedì 8 si svolgerà, come evento speciale, il grande omaggio e tributo a Paolo Benvegnù. Vorremmo che questo giorno fosse percepito più come una festa, esaltando ciò che lui e la sua musica hanno significato e rappresentato per tantissimi. Si alterneranno sul palco tantissimi artisi, amici e collaboratori, come Piero Pelù, Irene Grandi, Ermal Meta, Truppi, Dente e tanti altri, i quali si esibiranno portando brani di Paolo o un loro brano fatto in collaborazione con lui, accompagnati dalla band dei Benvegnù.
Il 13 luglio invece ci sarà il secondo evento speciale in chiu- sura al festival: per festeggiare i suoi cinquant’anni di carriera e l’inizio del nuovo tour mondiale, ospiteremo Pupo. A primo impatto sicuramente è difficile collegare questo artista con il Mengo e con la sua visione musicale, ma dopo una serie di incontri con lui e bellissime chiacchierate non abbiamo avuto alcun dubbio, era un’occasione unica per un evento bellissimo per Pupo, per noi e per la città. Siete tutti invitati a questa nuova edizione, per scoprire nuovi artisti e per godervi una settimana di musica imperdibile!»

RALF PLAYLIST
PER MENGO MUSIC FEST

1. A Pain That I’m Used To (Jacques Lu Cont Remix) – Depeche Mode
2. Controversy – Prince
3. South – Fango
4. El Internet – Matias Aguayo
5. Rock da Fox – Ivan e Stella
6. Acid Day Easy Day – Sebra Cruz
7. Lysergic – ProOne79
8. Il Diritto di Ballare –
Dj Ralf/Samuel
9. Rain in The South – Art Fact
10. Acid Libidine – Italodeviance

PUPO PLAYLIST
PER MENGO MUSIC FEST

1. Umanamente Uomo: il sogno – Lucio Battisti
2. The Road To Hell – Chris Rea
3. Imagine – John Lennon
4. Sultans Of Swing – Dire Straits
5. L’more si Odia –
Fiorella Mannoia e Noemi
6. Highway Star – Deep Purple
7. Firenze Santa Maria Novella – Pupo
8. Have You Ever Seen The Rain? –
Creedence Clearwater Revival
9. Vedrai, vedrai – Luigi Tenco
10. Sarà perché ti amo – Ricchi e Poveri

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