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Veive - Episodio#3
L'original story firmata WEARE
Pubblichiamo il terzo ed ultimo episodio di una original story firmata WEARE e ambientata nell'Arezzo di un tempo

Avanzarono per circa mezz’ora, attraversando fossi, folte macchie di rovi ed un fiumiciattolo che, con il suo scorrere sommesso, alleggerì per qualche momento la pesante atmosfera che si portavano dietro dall’incontro con il ladro.
In lontananza, scorsero finalmente la loro meta: dalla cima del monte vicino, l’acquedotto romano scendeva serpeggiando attraverso i boschi, per poi dilungarsi sopra ai campi ed infine arrivare alla città poco distante. Grazie alla luna piena, si poteva distinguere facilmente il taglio dei blocchi di pietra somiglianti a scaglie, i quali donavano all’imponente struttura, la parvenza di un gigantesco millepiedi di roccia.

Aulo si fermò ad ammirarlo, nonostante lo avesse visto più volte, poiché nelle notti così limpide era sempre uno spettacolo affascinante. Antonio invece avanzò spedito, e fece per seguirlo anche Aulo, ma qualcosa attirò la sua attenzione: proprio sopra ad un punto della struttura che passava in mezzo al bosco, vi era stato un lampo bianco, durato giusto il tempo di un battito di ciglia. Pensò che fosse stata la sua immaginazione, quindi riprese a camminare, tentando di recuperare il compagno.
Si inoltrarono nel bosco, passando da un sentiero battuto probabilmente dagli animali, ma a tal proposito, era tutto troppo silenzioso. Sin dal primo passo sotto le fronde degli alberi, Aulo aveva sentito una leggera stretta allo stomaco che rendeva difficile il respiro ed il petto più pesante, quasi schiacciato. Notò dal suo affano, che la stessa cosa accadeva all’amico, ma lui non si scomponeva, né ci faceva caso, anzi, osservava dritto davanti a sé con volontà incrollabile.
«Eccola! Da questa parte.» chiamò Antonio, «Finalmente l’ho trovata.»

Davanti a loro si apriva uno spiazzo delle dimensioni giuste per potersi chiamare radura, la quale ospitava una parte dell’acquedotto, le cui estremità scomparivano tra gli alberi. La prima cosa che saltava all’occhio, oltre alla costruzione, era una grande quercia non troppo distante dal confine del bosco.
«Quell’albero è famoso tra i cacciatori.» spiegò Antonio, avvicinandosi alla pianta e poggiando una mano sul tronco massiccio. «Si trova esattamente sopra ad una delle piste che seguono i branchi di cinghiali. I cacciatori salgono tra i rami di questa quercia, lanciano giù di sotto le ghiande di cui quegli animali sono ghiotti, ed attendono che qualcuno di loro si fermi per potergli tirare con l’arco in tutta sicurezza.»
«Sembri saperne molto. Vai a caccia?»
«No, ma sono bravo ad ascoltare gli altri.» rispose Antonio, controllando il terreno attorno al fusto.
«Dici che la refurtiva si trova sotto a quell’albero?» chiese Aulo, che si era diretto alla base di uno dei pilastri dell’acquedotto, appoggiandovisi per riposare.
«No, le radici sono fitte e non permetterebbero di poter scavare bene, oltretutto il terreno non è smosso.»
«Qui sembra che ci sia stato un cane, guarda quanto terriccio fresco.»
Antonio alzò la testa verso il compagno e si precipitò nel punto menzionato. Sorrise. «Scansati, è sicuramente qua sotto. Quell’idiota non ha nemmeno appianato e coperto il terreno.»
Aulo si fece da parte, lasciando che l’altro scavasse il terriccio a mani nude: senza troppe difficoltà, vennero alla luce diversi sacchi di pelle piuttosto spessi e voluminosi. Antonio ne aprì uno in fretta, slegandone le corde che lo chiudevano e vi mise dentro una mano, estraendone poi una moneta d’argento.

«Siamo ricchi!» esultò, abbassando nuovamente il capo per rovistare tra la refurtiva.
«Ci daranno sicuramente una lauta ricompensa, quando restituiremo tutto.» rispose Aulo incerto, alzando la testa verso la sommità dell’arco bugnato, perché qualcosa aveva attirato la sua attenzione, ed è lì che la vide: il sottile velo trasparente che la copriva interamente, si spostava dolcemente al vento, aderendo ai seni ed alle cosce, incastonate in un corpo di una perfezione ultraterrena, spaventosa; il viso gli ricordava quello di sua madre, di sua moglie e di sua figlia. Gli occhi vitrei, spenti, lo fissavano, mentre la chioma dorata ondeggiante si muoveva sinuosa nell’aria, senza peso. Aveva tra le mani molte frecce argentate e sottili come aghi, ma solo una venne indirizzata a lui. Il dardo perforò l’aria e l’uomo sentì un bruciore provenire dal basso. Credette che la freccia lo avesse trafitto al petto, ma abbassando lo sguardo, si rese conto che non aveva capito proprio nulla: il gladio di Antonio, aveva trapassato la sua gola ed il collo, senza però riuscire a recidere l’osso.
La lama fu lasciata cadere a terra, ed Aulo crollò boccheggiando con le mani strette al collo, nel vano tentativo di fermare il sangue che usciva copioso. Si sentiva annegare e le forze stavano scivolando via velocemente attraverso il rosso. La vista si appannava e rimase solo qualche bagliore di luce. Infine sopraggiunse il buio.

Antonio lo osservava immobile nella stessa posa in cui l’aveva accoltellato, tremante e con gli occhi sbarrati; a bassa voce ripeteva: «Ho dovuto farlo amico mio. Tu ed Aranea avreste rovinato tutto. Devo ripagare tanti debiti. Chiunque al posto mio lo avrebbe fatto. Io te ne avrei dato una parte ma tu non sei intelligente come me e avresti restituito tutto. Guarda cosa mi hai costretto a fare.»
Si mise a sedere e poi scoppiò a ridere in un improvviso attacco isterico, tra le lacrime.
«Sono schifosamente ricco.» biascicò.
Un movimento improvviso sopra di lui. Antonio reclinò la testa all’indietro e la vide: gli stava puntando contro una delle sue frecce.
Antonio rise, credendo che fosse un’allucinazione dovuta allo shock e le fece il gesto col dito medio per poi asciugarsi le lacrime ed alzarsi. Si voltò nuovamente verso il punto dell’apparizione, ma non vi era nessuno. Scosse la testa. «Tutte stronzate.» disse tirando su col naso.
Tolse i sacchi dalla buca, e getto il corpo del compagno nella fossa, ricoprendolo con il terriccio umido di sangue.
«Non è molto profonda, quindi gli animali selvatici potrebbero scavare e mangiarti. Scusa, ma non ho tempo per farne una migliore.»

Rami che si spezzavano alle sue spalle ed un profondo ringhio corale, lo fecero girare di scatto con il gladio in mano. Dal bosco circostante, fuoriuscivano lentamente decine di bestie, che nemmeno lontanamente potevano ricordare dei lupi, tanto erano massicce, nere come l’abisso, piene di bocche dai denti affilati e occhi umani sparsi sul corpo. Ringhiavano, forse, come avrebbero fatto dei lupi, ma erano perfettamente coordinate in ogni singola tonalità emessa. Dopo pochi secondi, il ringhio si trasformò in un canto di voci umane, le cui parole di vendetta, nella vecchia lingua dei suoi antenati, penetravano la carne e lo spirito.
Antonio si mise in ginocchio piangendo e lasciò cadere il gladio a terra. Era stanco.
«Perdonami.» pronunciò con voce rotta.
Le bestie scattarono all’unisono ed il soldato chiuse gli occhi.
Non lontano, una capra belava.

di LORENZO STIATTI

Illustrazione di E.everything

Lorenzo Stiatti
LORENZO STIATTI

Chitarrista e cantautore, principalmente legato da un amore indissolubile alla musica punk e a tutte le sue derivazioni. Lettore accanito sin dall’infanzia e scrittore al giorno d’oggi.

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