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Aspettando… I Godot
Intervista alla alternative rock band aretina I Godot, che ci parlano della loro storia e del loro ultimo singolo "Alice".

Esterno, periferia cittadina. Sera di fine Gennaio. Nebbia.
E’ in questa ambientazione che mi ritrovo ad aspettare i Godot, per l’intervista che abbiamo programmato da settimane, e rimandato un paio di volte; questa attesa non ha fatto che accrescere la mia curiosità. Salgo le scale del Jailbreak, storica sala prove aretina, faticando a localizzare l’interruttore della luce, proprio come puntualmente accadeva in quel periodo, risalente a quasi dieci anni fa, in cui venivo qui a fare le prove con il mio gruppetto britpop del Liceo. Ogni scalino scandisce un ricordo che mi lega a questo luogo, a quel tempo. Varcato il grande portone blindato, mi ritrovo nel salotto della sala prove: l’unica novità che salta agli occhi è un enorme cartello stradale, con su scritto “dos(s)i artificiali”. Penso: “sono a casa”. Per il resto, è tutto rimasto com’era dieci anni fa: odore di cane bagnato misto a truciolato compreso. Mi faccio strada tra casse risalenti ai 90’s, biglietti di vecchi concerti che riposano a terra come grandi eroi del passato, bottiglie di birra contenenti micro-ecosistemi ormai dotati di vita propria, e finalmente, nella sala in fondo a destra, quella più nascosta, trovo Alessio e Lorenzo. Dopo qualche minuto arrivano, da terra subbianese, anche Stefano e Tommaso, portando in dote una salvifica stufetta elettrica, che sembra riscaldare l’umore, oltre che la stanza. Un paio di sigarette a scrocco (ringrazio pubblicamente Tommaso) e un bicchierinoone (per dosi massive, telefonare “Lorenzo”) di limoncello più tardi, mi sento come se i Godot li conoscessi da sempre. I ragazzi mi fanno sentire qualche pezzo di warmup, tra cui spiccano il singolo “Alice” e una cover di “Curami” cruda, diretta, che quasi oscura la paternità del Lindo Ferretti nazionale. I Godot incedono sicuri e amalgamati nell’alternanza di strofe, bridges e ritornelli; chiunque li osservi potrebbe giurare di trovarsi davanti a navigati veterani della musica, eterni compagni di vita. In realtà il loro vissuto insieme – come poi mi diranno – è molto più giovane, ma è tutto tranne che superficiale. Parlando con loro, individuo mentalmente due “nature” dei Godot – una più timida e riservata (composta da Lorenzo e Tommaso), l’altra più esuberante e positivamente incazzata (Stefano e Alessio, ça va sans dire) – che risultano tuttavia in perfetto equilibrio tra loro, due fazioni alleate nel combattere la stessa battaglia contro la realtà.
Sono emozionata, o mi è solo entrata un po’ di polvere del Jailbreak in entrambi gli occhi?

Come e quando nascono i Godot? Come è cambiata la formazione della band negli anni?
Stefano: I fondatori siamo Tommaso e io, come band nasciamo nel 2018; il batterista è sempre stato un pounincognita, ne abbiamo cambiati molti. Il nostro primo live in assoluto fu addirittura senza batterista, che una settimana prima si rifiutò di suonare. Suonavamo per un nulla, trenta o quaranta euro, ci dicemmo “ci pagano, ormai andiamo”; chiamai l’organizzatore, dicendogli che avrei suonato una grancassa, e che avevo bisogno di un tappeto per tenerla ferma: mi ritrovai con un tappetino da bagno, durante la prima canzone iniziai a scivolare, e così per tutto il concerto. Trovammo poi un ragazzo sardo, e alla fine per fortuna è arrivato Alessio. Siamo stati vicini a finire una cosa come venti volte, ma siamo sempre qui. Ognuno ha i propri ruoli, conosce i propri limiti e qualità, così come quelli degli altri.
Tommaso: E’ un vecchio progetto con una formazione nuova; quando uno dei vecchi componenti si è traferito in Australia in cerca di fortuna, mi sono ritrovato da solo con “Scheggia”. E’ lui l’elaboratore dei testi, quando mi disse che aveva voglia di metterli in musica ci mettemmo in moto per cercare di provarci. Abbiamo avuto diverse formazioni, questa è quella ufficiale. Lorenzo è stato l’ultimo ingresso, diciamo che è come se la band fosse rinata; lui è il più bravo tra noi (ridono – NdA).
Alessio: Sono il “gioioso” batterista dei Godot, uno dei nuovi entrati. Se sono arrivato qui è merito di Lorenzo Nocentini, e della potenza del passaparola. I ragazzi sono stati bravi a “sopravvivere” anche al periodo del Covid, tenendo vivi alcuni live in condizioni di difficoltà, senza musicisti. Anche Lorenzo è stato bravo, ha praticamente tenuto in vita i Godot anche quando erano morti (ride – NdA). Mi piacque molto un’espressione che usò “Scheggia” quando ci conoscemmo, disse “qui siamo una cooperativa rock’ ’n roll”. Siamo quattro persone diverse, ma in qualche modo ci assomigliamo: portiamo tutti qualcosa, anche dal punto di vista compositivo, abbiamo sempre tenuto la musica un po’ “in tasca”, e ora cerchiamo di metterla insieme al meglio.

Come avviene il processo compositivo e di scrittura?
Stefano: Dipende, per me non esiste un metodo per scrivere una canzone, ci sono tante possibili varianti, anche a seconda di come stai a livello di umore e di testa. Magari Lorenzo o Tommaso fanno un giro, lo sentiamo, ci piace e andiamo dietro a quello. C’è sempre un ruolo dominante, come è naturale, ma il concetto viene sviluppato da tutti.
Lorenzo: Negli ultimi pezzi lavoriamo insieme, oppure partiamo da un’idea mia o di Tommaso. Ma in generale non c’è una forma fissa, obbligata.
Alessio: Siamo una vera cooperativa. Mi piace che le canzoni si siano evolute soprattutto provandole e suonandole. Non facciamo punk, ma lo siamo nell’attitude.

Interessantissimo il riferimento all’opera teatrale di Thomas Becket, “Aspettando Godot”. Come nasce il nome della band?
Stefano: Il nome nasce davvero quasi a “stronzata”; pensando poi alla nostra personalità e al modo di esprimerci, è effettivamente presente della teatralità. Anche quando facciamo concerti, siamo piuttosto teatrali. Personalmente amo la teatralità anche nella vita stessa, mi galvanizza il colpo a effetto, non mi piace lo scontato. Alla fine è ciò che fa anche Becket: ti lascia sempre in attesa di quel colpo, la sua opera è sempre sul chi va là, non sai mai cosa succederà. Nello specifico, quando abbiamo scelto il nome, ci trovavamo ad una laurea; il batterista continuava a sparare stronzate, lo volevo picchiare. Proprio perché questo nome non arrivava mai, proposi alla fine di usare “Godot”.

Tra le vostre influenze ci sono sicuramente il punk, una vena alternative, oltre a una veste cantautorale, anche nella stessa intenzione dei testi. E’ difficile autodefinirsi, ma voi come lo fareste?
Tommaso: Le influenze sono sicuramente tante, perché di quattro che siamo, portiamo quattro cose diverse, alcune anche comuni. Veniamo da background parzialmente diversi, ognuno è magari più appassionato ad un genere rispetto a un altro; quando li portiamo in sala prove, facciamo notare questa varietà.
Stefano: Anche la piccola differenza di età che c’è tra noi conta: io sono cresciuto con The Strokes, Arctic Monkeys, Afterhours, Zen Circus, Management del Dolore Post Operatorio. Lorenzo è più grande, ha influenze ancora diverse. Quando Tommaso era ragazzo era tornato in auge il grunge, quindi lui magari porta più quello.
Alessio: Con Tommaso condivido molto il punk, che applichiamo alla parte ritmica; penso ai Clash, coi quali spesso ci “scaldiamo”. Parlando per me, direi anche i Verdena. Concordo sulla parte cantautorale, anche sotto l’aspetto melodico; prima ti abbiamo fatto ascoltare i pezzi più tirati che abbiamo, quelli con cui partiamo di solito, me ne abbiamo altri con molte più aperture, più chiaroscuri.

Il vostro singolo d’esordio sulle piattaforme digitali è stato “Alice”. Nel ritornello del pezzo  (molto incazzato – NdA) dite “Altro che Alice e il Paese di Wonder”. Qual è l’immaginario dei Godot?
Alessio: Sicuramente, siamo un po’ in fuga della realtà.
Stefano: “Alice” è nata proprio in questa sala, quando il Jailbreak aveva ancora la vecchia gestione. Quel giorno ero parecchio “girato” per cazzi miei, soprattutto di donne. Tommaso suonava continuamente questo giro, molto “Reptilia”. La base di “Alice” è nata di getto, ho scritto il testo dopo quattro birre, in cinque minuti. Poi ovviamente c’è stato tutto un lavoro successivo, ma la nascita in sé e per sé è stata molto spontanea.
Tommaso: “Alice” è nata prima della pandemia, poi abbiamo deciso di registrarla, dopo una fase di pre-produzione, perché era anche difficile provare in quel periodo.
Alessio: La pre-produzione del pezzo è stata esattamente la prima cosa che ho sentito appena entrato nel gruppo. Dobbiamo ringraziare tantissimo Marco Romanelli e Lorenzo Nocentini, con i quali abbiamo registrato il pezzo al Rooftop Studio. Lorenzo ha fatto una bellissima produzione, lavorando sempre in maniera critica, produttiva e non spersonalizzando nulla; Marco invece si è occupato del mixaggio. Un grazie va anche a RadiciMusic Records e Arezzo Che Spacca, che ci hanno aiutato nella distribuzione. Senza di loro non ce l’avremmo fatta.
Stefano: Apprezzo moltissimo anche che Radici si sia presa il tempo e la pazienza per ascoltarci; molti non lo fanno, siamo nell’era del ghosting. Invece a mio parere la critica, positiva o negativa che sia, merita sempre di essere fatta, e allo stesso modo, ricevuta.

L’estate scorsa avete calcato anche alcuni palchi della zona: penso al SubRockFest di Subbiano e al Jungle Beats di Castiglion Fibocchi. Come è andata l’esperienza coi Festival?
Alessio: Io sono entrato a Febbraio scorso, Lorenzo addirittura in estate. Abbiamo preparato il primo live in un mese, durante la data a Castiglion Fibocchi quasi nevischiava (ride – NdA). Anche la serata a Subbiano, in apertura ai Ros, è stata bella. Loro sono persone fantastiche, sia sul palco che fuori. Abbiamo anche altre date in programma prossimamente; l’ultima è stata “La Festa dell’Amore”, il 17 Febbraio a Borghetto, in collaborazione coi Baulerz.

I Godot mi sembrano tipi con poche pretese e aspettative. Ma ci sono progetti, obiettivi, situazioni che state “aspettando”?
Alessio:
L’unica parola che mi risuona in testa è “suonare – suonare – suonare”, che sia live o studio. Più che aspettativa, c’è voglia. Anche perché siamo diversamente giovani, l’età dell’aspettativa è finita da un pezzo (ride – NdA).
Stefano: Oggi o vai a cento all’ora o sei un coglione, le aspettative andrebbero rivalutate sotto tanti punti di vista. Il sogno di puntare al massimo – parlo per me quando dico che non abbiamo nulla da invidiare a nessuno – poi, è normale che ci sia. Ma penso che vada preso tutto nel giusto modo: mettendoci del nostro, dandoci da fare e divertendoci, sperando che giorno dopo giorno arrivi sempre qualcosa di migliore. Non dev’essere un’ossessione, ma un’aspettativa positiva dovuta al divertimento di fare le cose. Perché l’ossessione di base fa schifo.
Lorenzo: Quando sono entrato nei Godot, c’era una sorta di linea che andava seguita e mantenuta, proprio in questo senso, nell’attitudine. Quindi concordo coi miei colleghi.

L’ultima è una domanda “cazzara”; mentre montavate gli strumenti vi sentivo parlare dei Maneskin. Prendiamoli ad esempio per fare un ragionamento sulle produzioni musicali di oggi.
Tommaso:
Non fanno nulla di nuovo, è tutto molto visto, ma la cosa positiva è che band come i Maneskin, ricevendo molti streaming su fasce di età differenti, potrebbero magari invogliare un po’ le nuove generazioni ad approcciarsi a uno strumento.
Alessio: Concordo con Tommaso, sicuramente loro aprono un po’ di porte e fanno muovere l’algoritmo in quella direzione. Sono puramente un prodotto, che però “puzza di buono”.
Lorenzo:
Li trovo anche dei bravi musicisti, per quello che fanno. Inizialmente, col primo album, erano un gruppo funky; sul rock hanno virato più con questo secondo disco. In realtà non li trovo rock, quanto piuttosto un fenomeno culturale. Per fare una metafora culinaria, è come se fino agli anni ’80/‘90 ci fosse stata la pizza, poi fosse stata eliminata, e nel 2000 fosse stata riportata la pizza surgelata: “bona la pizza surgelata!” (ridono – NdA).
Tommaso: Un esempio affine possono essere i Greta Van Fleet, che però hanno preso i Led Zeppelin e sono rimasti poi fedeli a quella che era la loro band preferita. I Maneskin, al contrario, hanno mixato gli Aerosmith ai Guns n’ Roses, e chissà a quante altre cose. Un po’ come  l’esperimento in cui l’intelligenza artificiale ha scritto una canzone di Nick Cave, con un computer che ha preso tutti i suoi testi e ne ha elaborato uno nuovo.
Stefano: Per questo voglio andare a “Wonderland”, perché questo è un mondo di merda.

I Godot sono Stefano Scheggia” Necci (Voce e Tastiere), Tommaso Dragoni (Basso), Lorenzo Sestini (Chitarra) e Alessio Franci (Batteria).

di GEMMA BUI

IG: @i_go_dot

Gemma Bui
GEMMA BUI

Studentessa, musicista, cultrice dell’Arte variamente declinata. Con la scrittura, cerco di colmare la mia timidezza dialogica. Nelle parole incarno la sintesi – e non la semplificazione – della realtà. Credo nella conoscenza come mezzo per l’affermazione di sè e come chiave di lettura dell’esistere umano.

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